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bianze, secondochè varia e si dilata il campo della sua attività o giurisdizione.

L'universa natura viene pertanto rappresentata come un mondo popolato di Genii operosi e industri,che reggono e propagano dappertutto il moto e la vita; e l'indagine speculativa prende l'aspetto di una religione scientifica o piuttosto di una demonologia naturale, per cui l' uomo, nell' atto di adorare i suoi Dei, ne ricerca l'origine e la natura, discute i loro titoli, li esalta o degrada, li riconosce o rinnega, secondo i risultamenti della sua incessante e ardita disamina. Il Veda ci presenta il fatto singolarissimo di un Deismo poetico ed entusiastico, che ad un tempo è critico e scettico, di una religione popolare che progredisce rapidamente verso i concetti astratti della filosofia. La continua e progressiva trasformazione del pensiero vedico appare necessaria dalle cose dette. Innanzi al guardo che spiava i passi del Genio operoso, nascosto dietro ogni fenomeno, doveva aprirsi un orizzonte sconfinato di sempre nuove e inaspettate scoperte. Infatti la sfera di attrazione, o diciamo l' orbita dei fatti speciali che si potevano raccogliere sotto l'azione di un dato Asura o principio attivo della natura, poteva apparire più o meno comprensiva e spaziosa, secondo chè l'osservazione fosse stata più o meno intensa ed estesa. È naturale che, crescendo a misura della curiosità l'attenzione, si scoprissero nuove congiunture ed appartenenze dei fenomeni non prima osservate, il che significava trovare nuovi effetti collegati con un dato principio causale. Tale scoperta riusciva alla successiva modificazione e moltiplicazione degli attributi di una data Divinità e per conseguenza alla formazione di una nuova persona divina. Così, per esemplificare uno di questi casi d'ingrandimento personale del Dio, una volta concepito il Genio del fuoco tellurico, lo studio volto a penetrarne l'intimo non si rimaneva appagato delle prime imperfette e confuse osservazioni. L'elemento igneo che scoppiava fuori dalle nuvole addensate del temporale appariva nei suoi effetti identico a quello che si vedeva uscire dalla confricazione delle legna inaridite e dal cozzo violento delle selci o dei metalli. E,

a quel modo che quello scendeva dal cielo sulla terra, questo vedevasi salire dalla terra al cielo. Il Dio terrestre diveniva quindi Dio atmosferico. Nè a questo accrescimento di grado egli si acquietava. Quando infatti il fuoco del fulmine, ricercato nella sua origine, apparve formarsi lassù nell' alto coi raggi accumulati del sole, il nostro Genio acquistò il diritto di essere considerato altresì come Dio celeste. L'esaltazione di un Dio porta poi seco di necessità l'abbassamento e tal volta l' annientamento di un altro. Posto ad esempio un Genio speciale del fuoco atmosferico, di fronte alla nuova figura del Fuoco che spazia nei tre mondi, non poteva esso sfuggire all' una delle due sorti: o passare alla condizione di semplice famulo o strumento di quel Genio più potente, oppure rimanere assorbito nella persona di lui, come una forma della sua attività. In codesto sforzo persistente di definire le attribuzioni delle diverse divinità, di misurarne la potenza, di notarne i rapporti scambievoli, di divisarne i gradi genealogici e gerarchici, vi è un lavorio mentale attivissimo, che riesce in sostanza ad una descrizione animata e poetica del cosmo. La figura del Dio non era mai così compiutamente velata dalle umane sembianze che facesse perdere di vista l'elemento naturale da essa rappresentato. Le vicende degli Dei erano tracciate passo passo sulle vicende dei fenomeni che si svolgevano nel mondo reale e vivente. L'antropomorfismo nel Veda è pertanto una fantasmagoria momentanea. L'immagine della Divinità è soltanto abbozzata, manca di contorni precisi, moltiplica anche e varia i suoi profili, secondo i punti diversi da cui il poeta l'ebbe a ritrarre. Sarebbe quindi assurdo il cercare nelle Deità Vediche quella bellezza plastica che spicca maravigliosa nelle figure del Panteo Ellenico. Se però negli Inni dei Rishi ci scapita l'estetica figurativa ci guadagna a cento doppi il sentimento della natura.

Ma l'intento di costituire una gerarchia divina non si poteva raggiungere senza una lunga controversia sul merito rispettivo degli Dei, già da prima confusamente adombrati come signori del mondo. A quel modo che la natura ci appare parte

a parte dominata da forze molteplici e contraddittorie, così il politeismo primitivo raffigurò un numero indefinito di Numi, diversi d' indole e di aspetto, nessuno dei quali potè per molto tempo arrogarsi un deciso primato sopra gli altri. La prima tendenza ad una classificazione genealogica si manifesta nel fatto che ogni Iddio, considerato dal punto di vista che gli è più favorevole, viene alla sua volta cantato negli Inni come. ottimo, potentissimo, massimo. Ogni forza indispensabile in un dato complesso organico, può essere rappresentata, per mezzo di un ragionamento specioso e sofistico, come quella su cui tutte le altre si appoggiano. Provatevi un po' a mettere su la questione di decidere chi adempia il primo e più importante ufficio nel consorzio sociale, e vi sentirete rispondere con molte bellissime conclusioni, tutte diverse e tutte tirate a filo di logica, colle quali ognuno vi dimostra che l'arte sua è l'arte principale e che senza di quella la società ne andrebbe a fascio! Ciò che vi ha di generalmente vero in questo fatto si è la tendenza a discutere il valore relativo delle cose mettendolo nel maggior rilievo possibile. L'amplificazione dei meriti straordinarii dei singoli Iddii riesce dopo tutto nel Veda ad un confronto più serrato e calzante della potenza rispettiva dei più potenti. Ma il presentarsi in molti punti congiunta la loro operosità è cagione di molte dubbiezze al poeta indagatore. Egli osserva, per esempio, che il Genio della luce eterea, il Sole non ha potere sufficiente da sgominare coi suoi raggi penetranti il Demone che copre il cielo ed isterilisce la terra. A tale effetto si richiede il movimento atmosferico, rappresentato dal Dio tonante e fulminante, il forte agitatore, a cui veramente si deve lo sciogliersi del nembo in pioggia ed il corso regolare dei fenomeni meteorici. Ma l'ordine del mondo si potrebbe egli in questo caso mantenere solo colla forza? Il Dio motore non può fare nulla se non trova chi gli appresti l'arma invincibile, la folgore acuta, che è opera di altri Iddii, sia del Sole stesso che ne fornisce la materia, sia del grande Fabbro (il principio plastico) che gli dà la forma. Chi sarà qui dunque il maggiore dei due, dei tre...? Ogni risposta terminaGIORN.NAPOL.Vol.I.-Marzo 1879 (Nuova Seric).

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tiva a siffatta questione importa un sistema particolare di cosmogonia, quasi bello e formato. Ma non è qui il luogo di trattare dei diversi modi con cui si tentò e si operò la riduzione panteistica, alla quale doveva riuscire in ultimo il politeismo primitivo. Dopochè parecchi Iddii ebbero via via patito la degradazione e infine perduto la loro entità personale, la sovranità del mondo rimase ripartita tra pochi supremi reggitori, sino a tanto che anche questi si trovarono inghiottiti e assimilati nella persona unica che doveva assommare in sè stessa tutte le potenze dell' universo. Ma qui cessa il periodo vedico. La poesia fugge innanzi alla metafisica. Ai lieti cantori ispirati dal mondo lusinghiero delle apparenze, percepite come realtà, succedono i severi pensatori assorti nella meditazione dell'essere unico, infinito, sempre identico a sè stesso, al quale fa necessario riscontro l'infinita vanità delle cose esistenti e mutabili.

Il poeta Vedico nell'atto di accommiatarsi dai suoi antichi Dei, che riconosce finalmente come forme illusorie, si mostra molto perplesso e sgomento, e vorrebbe chiudere l'occhio alla rivelazione di quella verità suprema, che è l' Uno-tutto misterioso, fatale, inaccessibile, inesorabile. Ma il corso del pensiero non si può rifare. Avvenne a quei fervidi ricercatori del vero quello che il Râmâyana racconta essere avvenuto ai figli di Sagaro. Questo pio e potente re dell'India aveva dato ordine ai suoi numerosi figliuoli di andargli a ricercare un bellissimo cavallo che gli era stato trafugato, nell' atto di celebrare il sacrifizio dell' Asvameda, da certi demoni fattucchieri detti Nâghi o Serpenti. I valenti Sâgaridi mossero sulle traccie del cavallo, percorrendo la terra per tutti i versi e squarciandola nelle sue più profonde viscere, sino alle estreme regioni dell'inferno. Gemeva la terra straziata e sbigottita per l'immane sconquasso e la strage di tante sue animate creature e ne moveva lamento al genitore di tutti gli esseri, il sommo Capila Vasudeva. Ma gli imperterriti cercatori non badavano a sospiri o gemiti che si levassero loro d'intorno, si spingeano sempre innanzi, scavavano sempre più profondo, volevano ad ogni costo

giungere al termine della loro impresa. E va e va e dagli e picchia, e' si trovarono un bel giorno in faccia del supremo Dio Nârâyana, quegli che si noma Capila, poco lungi dal quale parve loro di veder andar girellone l'ambito cavallo. Ma mentre gli correano dietro per pigliarlo, gridando « ferma, ferma», furono involti nel soffio ardente del Nume incommensurabile che li ridusse tutti in cenere (1).

Ma lasciamo la metafisica e torniamo alla poesia. Il Panteo vedico, nella sua forma più antica e genuina, ci appare come una vera anarchia divina. Ogni Iddio tira a sè quanto più può, e tende ad accrescere la sua potenza a scapito degli altri, con un contrasto vivacissimo che sempre si rinnova e non mai si risolve in favore di nessuno. È la lotta per l'esistenza portata nel mondo dei titani. Il cantore Vedico si mostra più volte maravigliato di questa gara divina e mette innanzi la questione << quale sia il più antico ed il più grande degli Iddii», la quale doveva rimanere per molto tempo indecisa (2). La pluralità

(1) L'Inno cosmogonico a Prag'àpati (il Padre delle creature) termina in questo modo: « Chi conosce, chi può spiegare donde sia sorto, come mai siasi generato questo Universo? Gli Dei sono succedanei all' esplicamento di questo. Donde ebbe dunque esso il suo principio? Vi è qualcuno che l'abbia fatto, oppur no? Colui che presentemente nel più alto degli spazi lo governa, ne saprà l'origine, o fors' anco la ignora egli stesso ». Quello intitolato a Vis'vakarman (il fattore universale) conchiude anche più tristamente. « Le acque raccolsero il primo germe in cui si trovarono riuniti tutti gli Dei. Sull' umbilico del non-nato posò quell' uno in cui si contenevano tutte le creature. Voi non potete pertanto conoscere colui che creò tutte queste cose; un altro è quello che vi appare come tale. Noi cantori d' Inni, avvolti nella nebbia, andiamo parlando a caso, malcontenti di ciò che diciamo ».

(2) « Nessuno tra voi altri Iddii è piccolo, nessuno è giovane; tutti siete grandi ad un modo. (R. V. VIII, 30, 1) ». « Tutti gli Dei sono egualmente disposti per l' uomo, egualmente provveduti di beni, per fargliene dono (R. V. VIII, 27, 14). » Oltre queste testimonianze isolate si può vedere negli Inni ai Vis'vadeva (Tutti gli Dei) l' incer

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