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Ed il coro grida:

Dum licet ergo moniti, stabilem

Discite legem.

Tale è il lavoro del Mussato. Certo non è scevro da difetti; ma tuttavia così fatto, che se fosse stato scritto in italiano sarebbe certamente tenuto in pregio assai maggiore, che non sono molte altre opere di diverso genere le quali non hanno altra dote che quella della lingua. Certo non ci sarebbe stato Michelangelo nè Raffaello al mondo, se non ci fosse stato Giotto e Cimabue; nè vi sarebbe stato Rossini, se non vi fosse stato Guido e Casella. Quel che piace in questo lavoro è il soggetto nazionale; nè l'alto stato delle persone, che si mettono sotto gli occhi degli spettatori, nè le asprissime condizioni di quelle a me pare che possano dar la tragedia vera. La tragedia non è, che il poema messo in azione: un fatto grandissimo e nazionale di glorie e di sventure è quello solamente, che può esser tema di tragedia.

Nè quando dico nazionale voglio intendere che abbia ad essere ad ogni modo un fatto della patria storia. Ancor che sieno fatti di storie altrui, gli avvenimenti della umana famiglia tutta possono avere un certo legame, una certa allusione agli avvenimenti delle nostre società. Oppressi ed oppressori sempre si somigliano in ogni terra. Tutto sta nello scorgere in che veramente si somigliano, e sceglier fra loro fatti quelli, che più si addicono alle vicende nostre.

Di A. Mussato si ha pure un' altra tragedia, l'Achilleis. Questo lavoro scritto ugualmente in latino oggi è dimenticato del tutto, e forse ha pure nociuto alla sua fama l'esservi dello stesso scrittore l'altro componimento, di cui ho parlato, il quale certamente per affetto è molto più importante e degno di esser letto.

A. Mussato non fu certo il solo a tentar questa forma di comporre in quei tempi. Francesco Petrarca nelle sue opere nomina un valente attore dei suoi dì, Tommaso Babasio da

Ferrara ; e non dubita di chiamarlo il Roscio degl' Italiani. Che Roscio avrebbe dovuto esser costui, ove quei tempi non si fosse potuto mettere in sulle scene commedie e tragedie? Ma oltre alle argomentazioni ed agli indizii si hanno buone prove di fatto. Esiste nella B. Laurenziana un componimento drammatico intorno alla espugnazione di Cesena fatta dal cardinale Albornoz nel 1337. Questo lavoro anche esso scritto in latino fu attribuito appunto al Petrarca. Il Mehus prima e poi il de Sade credettero dall'esame dello stile potersi chiarire abbastanza, che questo lavoro non fosse opera del Petrarca. Sorto il dubbio si andò cercando a chi attribuirlo; e generalmente oggi si ripete che esso fu lavoro di Coluccio Salutato, del Petrarca amicissimo, ed anche egli molto tenuto in pregio ai suoi di. Oltre al lavoro in su la espugnazione di Cesena, nel detto codice leggesi un altro componimento drammatico intorno alle vicende di Medea. L'uno e l'altro lavoro vanno sotto il nome di commedia; nè è da farne le maraviglie, sapendosi che gli scrittori del trecento sovente dettero il nome alle opere dallo stile, che adoperavano, sicchè qualunque ne sia stato lo scrittore, è probabile che adoperò quel nome per aver voluto usare uno stile facile e piano, da poter meglio essere inteso, perchè recitavasi in latino. Questi due lavori rispetto ad argomento hanno fra loro quella medesima differenza che è fra i due precedenti del Mussato. Il primo starà accanto all'Ezellino, e le avventure di Medea se ne staranno con le vicende del Furioso Achille. In quelli la lingua morta significa un pensiere nuovo e nazionale, in questi osservasi la espressione dell'arte, che è fine a sè stessa quantunque ancor rozza in mano ad artista imperito. Del primo genere trovasi menzione anche di altri componimenti scritti pur sempre in latino. Giovanni Manzini della Motla scrisse una tragedia latina intorno alla trista sorte di Antonio della Scala signore di Verona; ma di questa non si hanno, che io mi sappia, altro che frammenti, raccolti dalle lettere di lui, che l'A.

Lazzari pubblicò. Non istarò a quistionare intorno all'indole comica o drammatica, che altri potrebbe dare alla Floriana. Certo non è tragedia; ed ancor che fosse, non potrebbe l'Allacci trarla tanto in alto di tempo da noverarla fra i lavori del secolo XIV.

Tale a me pare sia stato il procedere della forma dell' alta drammatica fra noi. Comincia popolana e religiosa e poi addiviene mezzo artistico dei letterati, e ritiene la forma latina. Furono, è vero, poveri e meschini i principii ma furono forse più primaticci e più spiccati che altrove. Se il Mussato non fosse nato a Padova, od almeno se egli avesse scritto in qualunque dialetto della penisola, non sarebbe dimenticato. Tuttavia comunque abbia scritto, il suo lavoro si pel fine e sì per molti luoghi meravigliosamente sentiti onora le lettere nostre più che i primi componimenti delle altre genti non facciano forse quelle delle loro nazioni.

(continua)

LA POESIA DEL RIG-VEDA

L'interpretazione degli Inni Vedici, nei quali si veggono i primordii della civiltà indiana consertarsi colle tradizioni comuni e primigenie delle genti Arje, è il lavoro secolare cui attendono da parecchi anni gli Indologi europei. In generale i cultori della letteratura Vedica, tutti intesi al problema scientifico, che è quello di spiegare ed illustrare l'idioma ed il concetto sostanziale degli Inni, o non parlano, o solo per incidente, della poesia, voglio dire del pregio estetico dei canti Vedici, e propriamente di quelli appartenenti al Veda più antico, che si dimanda Rig-Veda o Veda dei versi (1). Eppure molti dei mille

(1) Il Roth riconosce il merito poetico di molti Inni « Nicht' allen wohnt ein poetischer Werth inne, aber viele wird man mit wirklichem Genuss lesen, bei andern durch die Frische und Einfalt der Gedanken sich angezogen finden etc. ». Certo « le gemme preziose si trovano qui mischiate a molto terriccio » come si esprime Max Müller; ma il Veda è come la montagna di Golconda, irta di scogli e piena di diamanti. M. Barthélémy de Saint-Hilaire, nel Saggio che diede di parecchi Inni del Rigveda, da lui tradotti nel Journal des Savants, nega bensì ai cantori vedici le talent de la composition, ma conchiude alfine: « Je ne crois pas céder à une admiration aveugle en réclamant pour les auteurs de ces hymnes une place désormais immortelle parmi le poëtes qui font le plus d'honneur à l'esprit humain. Sans doute le Veda poursuit un but plus élevé que celui de la poésie; mais puisque, sur sa route, il a rencontre des beautés de cet ordre, il est juste qu'on les lui reconnaisse, car le charme de ces. vers et leur majesté naturelle et puissante n'auront pas peu contribuè sans doute à fonder et à propager la religion des Védas ».

e diciasette Inui onde si compone il primo dei quattro Vedi, cantati dalle tribù pastorali e guerriere del Saptasindu (il paese dei sette fiumi, dall' Indo alla Sarasvati), in una società che si formava allora allora svolgendo liberamente le sue ingenite potenze, sono ricchi di poesia, di quella poesia che sgorga vivace e schiettissima dall'animo dell'uomo, il quale poetando non si avvisa di parlare un linguaggio diverso dal comune, non ammette alcuna distinzione tra la verità e la finzione, non sente alcuna contraddizione tra il mondo reale e l' immaginario. Per chi sappia, insomma, che il Veda non è niente affatto un libro sacro, nel senso che si suol dare a questa parola, ma un libro d'ispirazione spontanea e primitiva, non vi ha luogo al menomo dubbio che esso non sia una creazione essenzialmente poetica. Ivi la rappresentazione del mondo fenomenale trovasi identificata colla ricerca del vero (Veda significa appunto scienza) e lo schema fantastico, che coll'attenta osservazione del mondo esterno si va grado a grado divisando, si para innanzi come l'ordine universale delle cose. Gli autori degli Inni ci si presentano quali curiosi scrutatori dei fenomeni naturali (indi il loro nome di Rishi, che significa osservatori o veggenti) non già quali interpreti o continuatori di una dottrina mistica. e dommatica. Le loro vedute variano, si mutano, s'intrecciano, si correggono, si contrastano le une con le altre, poichè essi non si arrogano di dettare leggi alla natura, ma professano di seguirla studiosamente nelle sue molteplici manifestazioni (1).

(1) Negano quasi ogni pregio poetico al Rig-veda coloro che subordinano la parola dei Mantra (con tal nome si designano i versetti e le sentenze staccate degli Inni) alla liturgia,e la fanno umile ancella di un rito religioso già informato ad interessi ed intendimenti jeratici. Ma questo supporre una disciplina bella e formata, un sacerdozio, un culto esterno, non preceduti e non preparati dalla dottrina poetica, che è l' iniziatrice naturale e spontanea così delle religioni, come delle altre forme della civile coltura, riesce in fin dei conti ad un concetto meramente astratto e nominale. Ogni formalismo è stato precorso ed in certo qual modo determinato da quel pensiero libero, GIORN.NAPOL.Vol.I.- Marzo 1879 (Nuova Serie).

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