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gare almeno le sue autorità; stranissimo, che non s'accorgesse della importanza di un tal documento. Egli riteneva Dante nato nel M.CC.LXV; ora, nel M.CC.LXXXIII, (1) a diciott'anni, Dante non sarebbe stato maggiorenne; e quindi, nel documento, avrebbe dovuto od essere indicato un atto di emancipazione od intervenire il tutore. Dippiù, Dante non era figliuolo unico d' Allaghiero ; c'era anche quel pover' uomo di Francesco; e l'eredità d' Allaghiero rimase indivisa fin dopo la morte di Dante. Come avrebbe potuto dunque Dante, anche supponendolo maggiorenne od emancipato od assistito dal tutore, alienare un cespite dell'eredità paterna, senza l'intervento di Francesco o di chi per lui? Ecco un bel mistero da rischiarare! Auguriamoci che riesca a qualche solerte rifrugator d'archivî di far la luce.

Fra le cose possibili sarebbe anche l'esistenza di due Dante Allaghieri; l' uno de' quali, maggiorenne nel M.CC.LXXXIII, centumviro nel M.CC.XCVI, molto probabilmente non sarà stato neppur parente dell' omonimo priore e centumviro nel M.CCC. ed autore della Comedia, della Monarchia e del De Vulgari Eloquio. A sostegno della quale ipotesi, può addursi la seguente. partita dell' Estimo precitato de' danni sofferti dagli emigrati guelfi. Gli estimatori, nel contado del sesto di Porsampiero, il sesto stesso di Dante, registrano:

Unam turrim cum domo destructam ad Casilianum Curie Hostine Alaghieri et

Bardi

fratrum, filior. Clari Borghesi.

Damnum extimav. lib. 100.

Ripeto, siamo nel campo delle supposizioni. Nulla vieta, che questo Allaghieri di Chiaro Borghese avesse un figliuolo per nome Dante anch' egli, il quale, quindi, sarebbe stato chiamato anch'egli Dante Allaghieri, con non minor dritto del gran poeta, chè il nome di Dante era comunissimo (2). E forse l'er

(1) Trattandosi di citazione di citazione la probabilità d'un errore è viemaggiore.

(2) E, si noti, sempre distinto da quello di Durante. Non conosco

rore volgare ed accreditato d'una pretesa ambasceria di Dante Allaghieri a Roma, nel M.CCC.I, è sorta dalla vaga ricordanza d'un altro Dante, andato ambasciadore a Roma, insieme col Villan da Signa, dieci anni dopo, se s'ha a credere alla seguente notizia, che trascrivo dal Tomo XI delle Delizie degli Eruditi Toscani :

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Johannes fil. dicti Dom. Gherardi

Joannes Bonaccursi Procurator d. Ser Joannis
Dantes Farsettus f. Balducci Arringator

forte eorum comites

un esempio solo d'un Dante, chiamato anche Durante o d'un Du. rante chiamato anche Dante. Il diminutivo di Durante era Durantuzzo. In una sentenza dello Imperadore Arrigo VII contro tutt'i ribelli di Toscana (M.CCC.XIII) troviamo, tra' fiorentini del Sesto di Porsampiero: Durante Bonfantini e Durantuzzus vel Durancozzus Bonfantini.

(continua)

VITTORIO IMBRIANI

GIORN.NAPOL.Vol.I.- Luglio 1879 (Nuova Serie).

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ALLA PRIMAVERA O DELLE FAVOLE ANTICHE

CANZONE

DI

GIACOMO LEOPARDI (*)

È un fatto singolarissimo della poesia moderna questo, che i maggiori poeti dei tempi ultimi hanno considerato la morte delle favole antiche come uno dei più gravi danni, che potessero intervenire alla vita umana e segnatamente all'arte. Diversi di fede, d'ingegno, di favella e di affetti, quei poeti sono stati mirabilmente concordi nel dolersi di quella gran felicità perduta, ch'erano le finzioni mitologiche; tanto che ora riesce stupendo il vedere in molte lingue e forme e toni diversi significato quel medesimo concetto, quel medesimo dolore. Tanta unità, tanta concordia in un pensiero, in un amore, da cui parrebbe dovesse essere aliena la coscienza moderna, è un fatto degno di essere studiato nelle sue manifestazioni letterarie e nelle cause storiche, che lo produssero. Questo secondo studio però si converrebbe meglio agli storici delle moderne let

(*) Il presente articolo fa parte di un lungo lavoro che il nostro amico prof. Zumbini va preparando sulle poesie e sulle prose del Leopardi, ch' egli ha studiato sotto un aspetto nuovo, ch'è quello di indicarne tutte le fonti e reminiscenze classiche. Cedendo alle nostre preghiere, egli ci ha dato questo capitolo, piccola parte del suo lavoro, che noi pubblicheremo come saggio, credendo di far cosa grata ai lettori. La Redazione

terature a noi dalla natura del nostro argomento non altro è conceduto, che di ragionare alquanto delle produzioni letterarie e accennare appena alle cause storiche; perchè nostra sola intenzione è di studiare nel suo concetto e nelle sue forme la canzone del Leopardi alla Primavera; per il qual componimento egli si fece della schiera dei poeti predetti, collocandosi accanto ai maggiori di essi.

I.

Nei grandi poeti inglesi dei nostri tempi quell' intensa brama delle favole antiche, si trova spesso congiunta col più profondo sentimento della natura, che sia mai stato in cuore umano. Non crediamo che alcun moderno abbia tanto amato la natura quanto l'amò il Wordsworth; il quale nelle cose del mondo esterno trovò nuove e inesauribili sorgenti di pensieri e di affetti. Dalla contemplazione dei laghi, dei mari, delle aurore, dei tramonti, delle nuvole, delle cascate, dei monti, delle valli, di tutto ciò che è in cielo ed in terra, egli ricevette un'infinità d'impressioni tutte sue proprie e d'idee d'una sublimità inarrivabile; e ciò ch' egli disse in ispecie di piccole creature viventi, come della farfalla, del passero, dell'allodola, del fanello, del cuculo, adegua talvolta per affetto e tenerezza ciò che in altri poeti era stato dettato dall' amore alle più belle cose umane. Eppure, in mezzo all' esultanza che gli veniva dal sentire tante relazioni, tanta parentela tra sè e tutte le cose animate e inanimate del mondo, quel poeta, in qualche momento, si dolse di non essere abbastanza ricco di sentimento, e sospirò e invidiò l'antica età più propizia ai diletti dell' immaginazione e del cuore. E in un suo stupendo sonetto lamentò come il mondo ci occupasse troppo e la natura poco, e così avvenisse che noi non sentissimo quanti tesori e quante bellezze essa contiene, e che sono cosa nostra. E, offeso da tanta aridità di vita moderna, esclamò: «ah, vorrei piuttosto esser nato pagano! Così, stando su questa riva, potrei vedermi innanzi tante cose belle, che per me non è possibile

che più rivivano: potrei così veder Proteo che sorge dal mare, e il vecchio Tritone che dà fiato al suo corno (1) ». È vero che codesto è uno dei momenti più rari nella vita poetica del Wordsworth, che portava in sè, creato dalla sua stupenda ammirazione alla natura, un mondo d'immagini che non gli lasciava invidiare le morte favole degli antichi; pure, per ciò che riguarda il nostro proposito, è quello un momento importantissimo, che ci fa veder lui nella stessa condizione d'animo di tanti altri moderni, e specie del Leopardi quale mostrasi nel suo canto alla Primavera. Del qual canto è sentimento supremo questo, che noi moderni, privi delle antiche immagini, siamo quasi tanti orfani derelitti. E il Wordsworth, nominando appunto alcune di quelle creature mitologiche della cui morte si lamenta il Leopardi, accenna al sentimento medesimo, dicendo come, dove egli potesse vederle vive, si sentirebbe meno abbandonato (less forlorn).

Ma più costantemente, anzi continuamente bramoso delle immagini e di tutta la vita pagana fu il Keats, il poeta più greco di concetti e di effetti che sia stato nell' Inghilterra, e forse,

(1) Riportiamo per intero questo sonetto, ch'è una delle cose più originali del poeta inglese:

The world is too much with us; late and soon
Getting and spending, we lay waste our powers;
Little we see in Nature that is ours;

We have given our hearts away, a sordid boon!
This Sea that bares her bosom to the moon;
The winds that will be howling at all hours,
And are up-gathered now like sleeping flowers;
For this, for every thing, we are out of tune;
It moves us not. Great God! I'd rather be

A Pagan suckled in a creed outworn;

So might I, standing on this pleasant lea,

Have glimpses that would make me less forlorn;
Have sight of Proteus rising from the sea;

Or hear old Triton blow his wreathed horn.

Miscellaneous Sonnets, XXXIII.

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