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lere ancor noi. Anzi io dichiaro solennemente di non attenermi alla opinione di quelli che sogliono rigettare quelle voci, le quali chiamano antiquate, e di più dicono, che a que' tempi, ne' quali la nostra lingua non era salita a quell' alto grado di perfezione, a cui, com'essi vogliono, è salita a' di nostri, non sapeasi scrivere pensiero e virtù; sopra le quali sentenze io non dirò se non che il Poeta stesso in alcuni luoghi seppe scrivere e scrisse pensiero e virtù ; e che in altri volle scrivere e scrisse e pensero e vertù; e che ciò non a caso ei faceva, ma con grandissima sua ragione, essendomi non di rado accaduto di osservare, che spesse volte egli non usava la lettera i ; il che avveniva quando essa a' dilicati orecchi suoi toglieva la dolcezza e la grazia del verso, ovvero quando per la necessità delle voci essa cadeva più e più volte nel verso medesimo. Lo stesso dicasi del conviene e convene, dell' invogliare ed envogliare, e consimili; e lo stesso pure di qualunque altra lettera, la quale, sebbene dolce di sua natura, ei nondimeno la lasciava ogni volta che, non essendovi necessità di pronunciarla, era insieme cagione di asprezza. Basti per tutti gli esempi quel solo nel verso della Canzone IV. (Vol. II.) Tacer non posso.

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(Ch' era dell' anno, e di mi' etate aprile)

che così è impresso nell' edizioni fatte secondo la

lezione dello scritto autografo; e non come è stato in tutte l'altre edizioni comunemente impresso

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(Ch' era dell' anno, e di mia etate aprile). Fuvvi alcuno forse, che si credette far opera lodevole e buona, ponendo la lettera a alla voce mia, e dando a leggere di mia etate; ma la fece viziosa, e rea, si perchè ne alterò il primigenio testo, e si perchè la collisione e l'iato, che fa l'accozzamento di quelle tre vocali nelle due voci mià etate, egli è vizio; il qual vizio della collisione e dell' iato (ove non lo richiede spezialmente l'affettò, o il ritmo, o l'armonia, com'è in quel verso del Sonetto XXXII. ( Vol. II. )

Quanta invidia io ti porto, avara terra, verso così scritto dal Poeta, come può anche vedersi nel frammento suo originale custodito nella Vaticana, e non senza la voce io, che fu poi mal tralasciata nelle lezioni comuni è stato, come dice il commendatore Annibal Caro nelle sue lettere, P. II. fac. 136, ediz. de' Giunti, molto fuggito dal Pe

trarca.

Mi rimarrebbe adesso a dir qualche cosa intorno a ciò che concerne la parte bibliografica, e calcografica, e tipografica di questa mia edizione. Ma quant'è alla prima, prego i lettori di voler leggere, se loro piace, la biblioteca Petrarchesca, ch' io posi nel fine del secondo volume, la quale è preceduta da un proemio, in cui rendo ragione di tutto ciò,

che risguarda quel mio qualsisia lavoro. Quant'è alla seconda, io li prego parimente a voler leggere le mie dichiarazioni ed illustrazioni storico-critiche di tutte l'opere d'intaglio, che in questa edizione si contengono, le quali dichiarazioni, ho poste nel fine del primo volume. Da ultimo, quant' è alla parte tipografica, cioè quant'è alla diligenza, che in questa edizione si è usata niente io dovrei dire, perchè niente più potrei di quello, che l' opera stessa dirà manifestamente da se. Pur io debbo dichiarare a gloria della verità, che le cure prestate dal ch. Sig. Ab. Furlanetto Rettore benemerito di questo Seminario, e spezialmente dal ch. Sig. Ab. Bernardi Direttore della Tipografia dello stesso Seminario, uomini dottissimi insieme e zelantissimi dell' onor delle lettere, a fine che questa edizione ottenesse l'intento da me bramato, furono tali e sì gravi, ch'io medesimo non saprei abbastanza estimare, non che ridire. Ma che che sia per essere degli sforzi in ciò fatti, io sono almeno ben certo, che, esempigrazia, se' per sei ora coll' apostrofo ed ora non, i per sì, i' per io ora coll' apostrofo ed ora senza e alcuna volta fiammeggiare con un g solo, e sbagli ne' numeri de' versi e delle facce, e consimili errori, che si trovano eziandio in quella edizione, che ben a ragione è stata infino ad ora giudicata la più corretta di tutte l'altre, non si rìtroveranno in questa .

E poichè ho stimato sempre lodevolissimo il costume di quelli, che pubblicando l' opere di qualche classico autore, ad esse hanno aggiunta la vita del ` medesimo, o per loro stessi, o per altri scritta, pensava io pure di dover adornare questa mia edizione, delle rime di FRANCESCO PETRARCA con la vita di lui . Ma, dico il vero, siccome non mi siccome non mi parea di dover usare di quelle, che sono alla luce, non già perchè non ve ne sia alcuna degnissima di lode, ma perchè io riputava soverchia cosa il farne nuova ristampa ; così non mi parve di dover io scrivere la vita d' uomo si illustre e sì grande, perchè questa io considerava per me troppo ardita cosa, anzi temeraria: quando mi nacque il pensiero di riandare le opere latine del nostro Poeta, e tutti que' passi principali, e più confacenti all' intendimento mio, ne' quali favella di se medesimo, raccogliere, ordinare, e comporre in uno, così che ne risultasse quasi un breve compendio, e certamente ben autentico della sua vita. E così feci più che potei diligentemente; e ne feci poi una traduzione in volgare a fine di porla, siccome ho fatto, in questa nuova edizione delle sue rime. Nel tradurre, secondochè parvemi uffizio di buon traduttore, non mi attenni all'usata mia maniera di scrivere, ma m'ingegnai di avvicinarmi a quella semplicità, e dignità e gravità, e direi anche non ispiacevole ruvidezza di che è fatta la maniera dello scrivere latino del Poeta

medesimo. E così, a guisa di pittore io mi studiai di ritrarre l'originale; il che se mi sia riuscito di fare, il giudicheranno quelli, che vorranno paragonare insieme il volgare e il latino; il perchè nel fine di quel mio volgarizzamento io n' ho citato l'edizione, il libro, e la faccia, e la linea, in cui si può leggere, da chi 'l voglia, l' originale in latino di quel passo, ch' io ivi tradussi in lingua nostra vol

gare.

Nel qual mio lavoro, ed in tutta l'opera mia nel dare alla luce queste rime, sappiasi pure, che altro fine io non ebbi che di rendere onore e gloria al nostro Poeta, e di seguitare studiosamente, in tutto, l' intendimento di lui, tanto quanto parvemi manifesto. Quindi primieramente, come nel principio ho detto, io mi attenni sempre fedelmente in questa mia edizione alle tre, che ci hanno dato il testo degli autografi, dove tutte e tre le ritrovai concordi. In secondo luogo, dove non le ritrovai tutte e tre concordi, io seguitai le lezioni comuni. Nondimeno in un solo passo, ch'è nel Cap. I. del Trionfo della fama (Vol. II.), benchè due sole delle tre edizioni sieno concordi, e l'altra sia discorde, io non seguitai la lezione comune, ma mi attenni alla lezione delle due. Il passo secondo la lezione comune è questo:

E'l più nobile Fulvio; e sol un Gracco
Di quel gran nido; e Catulo inquieto,

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