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E perchè a ciò m'invoglia
Ragionar de' begli occhi;

Nè cosa è, che mi tocchi,

O sentir mi si faccia così addentro) e rientro

Corro spesso,

Colà, donde più largo il duol trabocchi,
E sien col cor punite ambe le luci,
Ch' alla strada d'Amor mi furon duci.

Le trecce d'or,

che devrien far il Sole

D'invidia molta ir pieno;

E'l bel guardo sereno,

Ove i raggi d'Amor sì caldi sono,

Che mi fanno anzi tempo venir meno;
E l'accorte parole

Rade nel mondo, o sole,

Che mi fer già di se cortese dono,

Mi son tolte e perdono

:

Più lieve ogni altra offesa,

Che l' essermi contesa

Quella benigna angelica salute,

Che'l mio cor a virtute

Destar solea con una voglia accesa:

Tal ch' io non penso udir cosa giammai, Che mi conforte ad altro, ch' a trar guai. E per pianger ancor con più diletto;

Le man bianche sottili,

E le braccia gentili,

E gli atti suoi soavemente alteri,

E i dolci sdegni alteramente umili
E'l bel giovenil petto

Torre d'alto intelletto,

,

Mi celan questi luoghi alpestri e feri:
E non so, s' io mi speri
Vederla anzi ch'io mora:

Però ch'ad ora ad ora

S'erge

la speme, e poi non sa star ferma; Ma ricadendo afferma

Di mai non veder lei, che 'l Ciel onora,
Ove alberga Onestate e Cortesia,

E dov' io prego, che 'l mio albergo sia.
Canzon; s'al dulce loco

La Donna nostra vedi;

Credo ben, che tu credi,

Ch'ella ti porgerà la bella mano;

Ond' io son sì lontano.

Non la toccar: ma reverente a' piedi
Le di', ch' io sarò là tosto, ch' io possa,

O spirto ignudo, od uom di carne e d'ossa.

SONETTO XXIV.

Si lagna del velo e della mano di Laura, che gli tolgon la vista de' suoi begli occhi,

Orso; e' non furon mai fiumi, nè stagni,

Nè mare, ov'ogni rivo si disgombra;

Nè di muro, o di poggio, o di ramo ombra; Nè nebbia, che 'l ciel copra, e 'l mondo bagni;

Nè altro impedimento, ond' io mi lagni;

Qualunque più l' umana vista ingombra;

Quanto d'un vel, che due begli occhi adombra; E che dica: Or ti consuma, e piagni.

par

E quel lor inchinar, ch' ogni mia gioia
Spegne, o per umiltate, o per orgoglio;
Cagion sarà, che 'nnanzi tempo i' moia:

E d'una bianca mano anco mi doglio,

Ch'è stata sempre accorta a farmi noia,
E contra gli occhi miei s'è fatta scoglio.

Tom. I.

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SONETTO XXV.

Rimproverato di aver tanto differito a visitarla, ne adduce le scuse.

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Lo temo sì de' begli occhi l'assalto,

Ne' quali Amore, e la mia morte alberga;
Ch'i' fuggo lor, come fanciul la verga;
E gran tempo è, ch' io presi 'l primier salto.

Da ora innanzi faticoso, od alto

Loco non fia, dove 'l voler non s'erga; Per non scontrar chi i miei sensi disperga, Lassando, come suol, me freddo smalto.

Dunque s'a veder voi tardo mi volsi,
Per non ravvicinarmi a chi mi strugge;
Fallir forse non fu di scusa indegno.

Più dico: Che 'l tornare a quel, ch' uom fugge:
E 'l cor, che di paura tanta sciolsi:
Fur della fede mia non leggier pegno.

SONETTO XXVI.

Quando Laura parte, il cielo tosto si oscura,

ed insorgono le procelle.

Quando

uando dal proprio sito si rimove

L'arbor, ch' amò già Febo in corpo umano;
Sospira e suda all' opera Vulcano,
Per rinfrescar l'aspre saette a Giove:

Il qual or tona, or nevica, ed or piove
Senza onorar più Cesare, che Giano :
La terra piagne, e 'l Sol ci sta lontano,
Che la sua cara amica vede altrove.

Allor riprende ardir Saturno e Marte,
Crudeli stelle; ed Orione armato
Spezza a' tristi nocchier governi e sarte:

Eolo a Nettuno ed a Giunon, turbato,
Fa sentir, ed a noi, come si parte
Il bel viso dagli Angeli aspettato.

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