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nemmen la tribù, che non è rara in tal epoca (a), e in alcun marmo si vede ancora sino all' età di Gallieno (b).

(Altri Monumenti ne' fogli venturi ).

(a) Grut. pag. 442. 1., Reines Cl. VI. n. 67., cl. VIII. n. 17., Fabr. Col. Traj. pag. 37., Reland. Fast. Cons. pag. 55. 56., Maff. M. V. pag. 253. 3., Doni Cl. VI. n. 16., Gori Insc. Etr. T. I. pag. 301., n. 31., Mur. pag. 546. 2., il qual correggendo lo Sponio, il Gallarati e il Fabretti, legge nell' 8. lin. GEMELLIO quando è GEMELLIS, e tre sono in fatti i figli di Cajo da me veduti nell' ara bellissima in questa Biblioteca Ambrosiana.

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(b) Maff. Mus. Ver. pag. 113. 1., Mur. p. 355. 1., Grut. p. 369. 3., 1028. 2.

Continuazione della Pastorizia di Cesare ARICI. (Vedi il T. II. pag. 313 di questo Giornale).

ARTICOLO III.

NE' molti luoghi che son venuto recando di

questo bel poema ho notate per occasione alcune cose di lingua; ora voglio alquanto parlarne di proposito: chè sebbene ciò riesce noioso a molti, non dee rincrescere a coloro che sanno essere la lingua negli scrittori non meno importante che ne' pittori il colorire. Pregio particolare, ed a' nostri giorni rarissimo, è dell' Arici non contaminar mai la sua favella con vocaboli barbari e stranieri: ma parmi che talora manchi di proprietà, abusando le parole nostre ad un senso che loro disdice l'uso costante degli approvati scrittori. Di che andrò per lo volume cogliendo alcuni esempi, la cui osservazione potrà essere di qualche utilità agli studiosi. Ma prima è giusto che io disdica e disapprovi ciò che scrissi a facc. 326 del precedente volume; laddove mi parve latinismo non lodevole il sonno prodotto anzichè prolungato. Ed era meglio che io ne seguissi il consiglio del Cav. Monti: il quale poi mi ha recato un luogo dell' Ariosto, tutto in favore dell' Arici, nella stanza 21 del Canto XXIX.

Che producendo quella notte in gioco
Con quelli pochi servi ch' eran seco.

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Pagato (come farò sempre) questo debito al vero, ecco alquante osservazioni di lingua sulla Pastorizia.

facc. 2. Molti a lui pascean candidi armenti L'aprico Etna selvoso.

cioè

Credo che una montagna se è selvosa coperta di spessi alberi, non possa essere aprica, cioè aperta ed esposta al sole.

facc. 4 canto... Tra le felici piagge del Mella. Stimo che nelle piagge, o sovra

esse l' uom

possa cantare ma tra esse non possa.

facc. 7....

I fianchi e il tergo

Veste intanto a gran ciocche il bianco vello,
Cui di vaghi color tinge e affattura

La varia arte di Tiro.

non

Stimo che affatturare in linga nostra sia altro che ammaliare, nè possa torcersi a significare il façonner de' Francesi. È vero che i poeti latini chiamaron talvolta venena alcune tinture, specialmente di porpora; ma non da ciò credo giustificabile questo affatturare. facc. 41. Come il parnassio laur, la pimpinella Verde ancor ti si serba, e l'umil e l'umil guado. Nou ignoro che il Poliziano nelle famose stanze scavezzò anch' egli il lauro in laur. Ma il Poliziano, poco più che fanciullo, pose in quel poemetto una maravigliosa felicità d'ingegno anzichè molta diligenza: onde non so quanto peso si voglia qui dare alla sua autorità. So bene che la lingua non patisce sì duro rompimento.

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facc. 48. Stien lunge i lupi; nè al tornar del vespro Pianga per voi diserto in sulla soglia

Del caro pecoril (sè stesso indarno
Accusando e i suoi veltri e la fortuna).
Il Pastor, che veduto ha dell' armento
Mancar l'un capo o l'altro; onde incitando
Dispettoso per valli e per foreste
L'animoso mastino, il cammin lungo
Del dì ritesse nella tarda notte;
E i miserandi avanzi seco tragge
Tolti di bocca al rapitor vorace.

:

ap

In questi lucentissimi versi mi offende la macchiuzza di un vocabolo. Puossi egli o propriamente o per figura tessere un cammino? Nò; dunque come puossi ritessere? Chi dicesse ripiglia o ricorre? stimo che direbbe meglio, poichè la via e si piglia, e si corre. Mi ricordo aver veduto in un grande moderno rileggere il sentiero e anche allora dubitai non fosse ben detto nella nostra favella ciò che dicon bene i latini. E la ragione è pronta. Io italiano pena odo la voce leggere, corro colla mente ad una scrittura: poichè presso noi a niente altro si può riferire quel vocabolo. Ma presso i latini il proprio e nativo senso di legere è raccogliere ; che poi metaforicamente fu detto di chi ricogliendo coll' occhio e colla mente le lettere forma le sillabe, e di queste insieme accolte compone col pensiero le parole, e queste pure insieme aggiugnendo riceve nell' intelletto i concetti delle scritture. Onde il romano ascoltando la voce legere non ne forma altro concetto che di raccogliere, ed aspetta d'intendere che cosa sia raccolta. Siccome poi chi rifà la medesima strada, par che vada in certo modo ricogliendo i passi già fatti, bella metafora è

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a' latini relegere viam; l'italiano che non legge la strada non la può rileggere. Dirà taluno : come tu osi disputare co' maestri, e rifare le ragioni a' grandi scrittori? Rispondo, che nelle lingue io distinguo i puri vocaboli dalle frasi e dalle figure. Per quelli mi basta il nome dello scrittore la cui autorità è ricevuta, e la cui testimonianza dà certezza che la meglio parlante porzione del popolo stabilì tal valore a tal parola. Ma quando venghiamo alle frasi e alle figure, lo scrittore non è più un testimonio di pubblico fatto; è privato inventore, che usa il proprio ingegno e giudizio: il quale io ricevo in quanto mi par vero e ragionevole, e nulla più; poichè ancor io ho un intelletto, e non invano. Ond' io non ricuso di adoperare una parola di Dante o di Cicerone, sol ch' essi l'abbiano adoperata: ricuserò d'imitare una lor frase o figura, se mi parrà che sia falsa o sconcia. E incorporo il mio pensiero con questa similitudine. La moneta ha un valor di commercio nel metallo, e un pregio d'arte nel conio. Di quello mi assicura, e mi obbliga a crederlo, l'autorità del principe; di quest' altro rimane a me libero il giudizio. Io spenderò per que' tanti baiocchi un giulio di Clemente Settimo, perchè il Papa gli stabilì quel valore; e inoltre loderollo e pregerollo come finissimo lavoro, uscito dalle mani di Benvenuto. A quelle doble milanesi di Filippo Secondo io non posso negare il valor delle tante lire che fu loro attribuito dal re di Spagna; ma nè egli comandò, nè poteva comandare, che non fossero stimate un de' più goffi e barbari lavori che mai si facessero di monete. Ora così

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